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di John Wimber
Noi vediamo ciò che ci aspettiamo di vedere. Di solito le nostre attese derivano da condizionamenti: ci hanno insegnato ad aspettarci determinate cose nella vita cristiana, e se Dio agisce al di fuori delle nostre aspettative, non riusciamo a vedere ciò che Egli sta facendo.
Nella Scrittura, il racconto della moltiplicazione dei pani mostra come i nostri condizionamenti possano impedirci di imparare le cose relative al regno di Dio. Dopo che Gesù ebbe sfamato migliaia di persone, la gente disse: “Questo è certo il profeta che deve venire nel mondo” (Giov. 6:14). Gesù si ritirò di lì perché “stavano per venire a rapirlo per farlo re” (v. 15).
Gli Ebrei credevano che il Messia sarebbe venuto per stabilire un regno eterno, oppure per ristabilire un regno politico come quello di Davide. Perciò, ogni volta che essi vedevano un miracolo, pensavano che il Messia fosse venuto a stabilire il suo regno politico. Perfino i discepoli, dopo la resurrezione, erano ancora condizionati da questo modo di pensare (vedi Atti 1:6). Avevano l’attesa di un regno terreno.
Esperienze soprannaturali
Anni fa, mi sentivo imbarazzato da certi membri della mia chiesa, i quali parlavano di strane esperienze soprannaturali. Una volta, una signora venne a raccontarmi la sua esperienza di conversione. Aveva già cercato di parlarne con un altro pastore, ma quello non le aveva voluto dare ascolto. La donna non capiva bene ciò che le era accaduto, e sentiva il bisogno dell’aiuto di un pastore.
Ecco che cosa era successo: una sera, di ritorno da una festa, appena entrata in casa sua avvertì la presenza di qualcuno. Spaventata, perlustrò la casa, senza però trovare nessuno. Ma più tardi, nella sua camera da letto, udì una voce che le disse semplicemente: “Rosa Lee!”. Questo era il suo vero nome di battesimo, ma era nota a tutti gli amici semplicemente come Lee. Si voltò, ma non vide nessuno. Poi udì la voce di nuovo, e questa volta ella domandò: “Chi è? Sei tu, Signore?”. “Sì, Rosa Lee. È ora che tu mi conosca”, fu la risposta. La donna cadde con la faccia a terra e riconobbe Cristo come suo Salvatore.
Quando mi raccontò questa storia, la pensai una persona molto strana, se non addirittura pazza. Udire delle voci?! Le spiegai, Bibbia alla mano, le condizioni per ricevere la salvezza e le feci ripetere una preghiera, per assicurarmi che fosse veramente salvata. Ella uscì dal nostro incontro profondamente ferita.
Il mio modo di pensare, le mie aspettative riguardo al modo in cui Dio parla alla gente oggi, avevano determinato il mio modo di interpretare l’esperienza di quella donna. Come risultato, sottovalutai la sua esperienza di conversione. Ringrazio Dio perché, anni dopo, quando avevo acquisito una migliore comprensione del soprannaturale, ho avuto modo di incontrarla di nuovo e di scusarmi con lei per il mio comportamento, e che lei ha avuto la bontà di perdonarmi.
Le nostre aspettative sono condizionate dalla nostra concezione del mondo e dai nostri presupposti sulla natura della realtà che ci circonda. Questi presupposti influenzano anche la nostra comunicazione e il nostro modo di interpretare i discorsi. A volte una piccola divergenza nella nostra percezione del mondo fa una grande differenza.
Presupposti
Nel secondo capitolo del vangelo di Giovanni, leggiamo di Gesù che usa una sferza di cordicelle contro i venditori nel tempio (vv. 13-22). I Giudei allora chiesero: “Quale segno ci mostri tu che fai queste cose?” Chiedevano una prova che egli fosse realmente il Messia. Una simile domanda non è sorprendente da parte di queste persone, visto che stavano nel tempio: erano Giudei devoti che conoscevano le Scritture e credevano nel soprannaturale.
La risposta di Gesù fu: “Demolite questo tempio, e in tre giorni lo farò risorgere!” Egli parlava del suo corpo, ma i Giudei pensavano che parlasse del tempio letterale nel quale stavano. Non riuscivano a capire le parole di Gesù perché, anche se la loro concezione del mondo era simile a quella di Gesù, c’era tra di loro una differenza teologica fondamentale. I Giudei non potevano accettare l’incarnazione. I loro schemi teologici, e soprattutto il loro rifiuto categorico del politeismo, impediva loro di cogliere la pretesa avanzata da Gesù di essere il Messia. (Penso che, sotto i loro problemi teologici, si nascondevano anche dei cuori duri).
I Giudei avevano delle chiare convinzioni intorno al tempio: era il luogo stabilito come dimora di Dio, un edificio fatto di pietre, quello in cui si trovavano in quel momento. Tenendo conto della concezione che avevano del tempio, la conclusione che Cristo stesse parlando del tempio materiale era ragionevole: a quale altro tempio avrebbe potuto riferirsi? Ma le loro conoscenze erano incomplete, e li portarono a trarre conclusioni sbagliate. Essi perdettero così l’occasione di imparare una verità centrale riguardo al regno di Dio: che l’Agnello di Dio doveva morire per i peccati del mondo.
In questo caso, Gesù parlava profeticamente della sua morte in croce e accennava al futuro trionfo della resurrezione, segno e prova conclusiva che egli possedeva l’autorità di sgomberare i cortili del tempio. Fu solo più tardi, dopo la resurrezione, che i discepoli compresero le sue parole. La chiave per poter interpretare correttamente la risposta di Gesù ai Giudei fu data da ulteriori informazioni e insegnamenti, venuti solo con la crocifissione. Queste informazioni cambiarono il loro modo di vedere sia il tempio che Gesù. Per dare un’interpretazione corretta, a volte è necessaria un’esperienza, che in questo caso era ancora nel futuro: quella della croce.
Scrittura ed esperienza
Gli evangelici credono che l’esperienza non debba determinare la teologia, ma che deve sempre restare subordinata alla Scrittura. Sono d’accordo anch’io con questo principio; ma credo che c’è un senso in cui la nostra esperienza si può inserire legittimamente nel processo di interpretazione, alterando i nostri presupposti, come avvenne nel caso della dichiarazione di Cristo ai Giudei sul tempio.
Ho parlato con molti teologi evangelici che hanno cambiato notevolmente la loro teologia in virtù di un’esperienza. Noi siamo continuamente influenzati dalle nostre esperienze, e dobbiamo avere l’umiltà di riconoscerlo. La questione è: con quale criterio valutiamo l’esperienza? Man mano che procediamo nella nostra vita cristiana e approfondiamo la nostra esperienza di Dio, il nostro modo di pensare dovrebbe diventare sempre più biblico. Spesso, purtroppo, una mentalità secolarizzata fa da filtro all’esperienza, portandoci a scartare tutto ciò che contrasta con il materialismo moderno.
C’è un altro modo in cui l’esperienza può influenzare legittimamente la teologia. Alcune verità della Scrittura non possono essere capite fino a quando non abbiamo fatto certe esperienze. Ho trovato che è così per quel che riguarda le guarigioni. Fino a che non ho fatto l’esperienza di vedere le persone guarire, non ho potuto comprendere molti passi della Scrittura che parlano della guarigione.
Spesso, la Bibbia ci indica delle esperienze che non abbiamo ancora fatto. Nella misura in cui faremo quelle esperienze, la nostra comprensione della Bibbia aumenterà. È così per quel che riguarda l’amore cristiano, il sacrificio di sé e le opere di misericordia: quando noi obbediamo, una luce si riflette dalle nostre buone opere sulla Scrittura, dandoci nuova rivelazione sulla grazia e sulla misericordia di Dio.
Dio dunque usa le nostre esperienze per farci comprendere meglio ciò che Egli insegna nella Scrittura, molte volte capovolgendo o correggendo elementi della nostra teologia e della nostra concezione del mondo. Questo è ciò che Egli ha fatto con i discepoli, attraverso le esperienze della crocifissione e della resurrezione. Solo allora, essi furono in grado di capire le parole che Gesù aveva rivolto ai Giudei nel tempio: “Demolite questo tempio, e in tre giorni lo farò risorgere!”.
Teologia
Tutto il discorso fin qui ci porta verso una sola conclusione: la nostra teologia è influenzata dalla nostra concezione del mondo. Quando il modo di pensare dei cristiani è fortemente influenzato dal materialismo occidentale, non è sorprendente se essi negano che i segni e i prodigi siano per oggi. Anche se usano argomentazioni teologiche, la difficoltà reale sta nella loro mentalità.
Poi c’è un’altra categoria di cristiani la cui concezione del mondo è stata influenzata dal razionalismo occidentale: essi potrebbero anche ammettere la realtà di segni e prodigi, ma li consegnano alla sfera dell’irrazionale. Queste persone cercano segni e prodigi solo come un’emozione che è fine a se stessa. Essi non comprendono il vero scopo di segni e di prodigi, che è quello di manifestare il Regno di Dio.
Se la nostra teologia esclude la possibilità che i cristiani contemporanei facciano le stesse opere di Gesù, compresi i segni e i prodigi, non vivremo mai tale esperienza. Ho saputo di un uomo la cui moglie fu guarita, quando i medici gli avevano detto che non avrebbe superato la notte. Quella sera, egli telefonò agli anziani della chiesa, chiedendo loro di venire a pregare per lei. Essi non erano convinti che Dio guarisce oggi, tuttavia vi andarono per senso di dovere: pregarono per la donna, la unsero d’olio e, con loro grande sorpresa, il giorno dopo fu dimessa dall’ospedale in perfetta salute! I medici definirono la sua guarigione “un miracolo”.
La cosa sorprendente in questo episodio è che quegli anziani non raccontarono mai ai credenti della loro chiesa quello che era accaduto. Erano meno esultanti dei medici! Inoltre, questo miracolo non li stimolò a continuare a pregare per i malati nella chiesa. Perché? Perché la loro teologia gettò un’ombra su un miracolo evidente, e poi perché non avevano sviluppato dei modelli per la pratica della guarigione. Anche se avessero riconosciuto apertamente la guarigione, non avrebbero saputo come inserire tale ministero nella chiesa. Così Dio guarì nonostante loro; la Sua misericordia fu più grande dell’incredulità degli anziani!
Nell’ultimo capitolo degli Atti, leggiamo di come Paolo fu morsicato da una vipera nell’isola di Malta. La prima reazione della gente del posto fu quella di pensare che egli fosse un omicida, scampato al mare, ma che “pur la giustizia divina non lo lasciava vivere” (v.4). I Maltesi avevano una visione del mondo che dava per scontata l’interazione tra il mondo visibile e quello invisibile. All’inizio, interpretarono il morso della vipera come un giudizio divino, ma poi, vedendo Paolo ancora in vita, essi pensarono che fosse un dio (v.6): per loro, solo un dio poteva sopravvivere ad un simile morso. In ogni caso, l’idea che Dio interviene direttamente nelle questioni degli uomini era un loro presupposto inconscio.
Le persone secolarizzate avrebbero forse detto: “Deve essere stato un serpente vecchio”, oppure: “Ha morsicato qualcun altro prima e quindi il veleno era diminuito”. Spesso, i cristiani occidentali pensano in questo modo, forse aggiungendo: “Dio aveva stabilito che fosse un serpente vecchio per salvare Paolo”. I nostri presupposti determinano le nostre conclusioni, esattamente come fu per quella gente di Malta.
Questo articolo è tratto dal suo libro Power Evangelism (Londra, Hodder & Stoughton 1985), per gentile concessione.
John Wimber è il fondatore e pastore della “Comunità della Vigna” di Anaheim, California, capostipite di diverse altre fiorenti comunità in parecchie nazioni. È noto soprattutto per i suoi corsi su “Segni, miracoli e crescita della chiesa” presso la Fuller Theological Seminary e per i seminari di addestramento sullo stesso argomento tenuti in ogni parte del mondo.